Al termine della fase cosiddetta invernale (i quattro mesi al freddo fra salatura e riposo), i prosciutti entrano in periodo primaverile. C’è la necessità di far loro subire uno shock termico dai 4 ai 40 C° con un lavaggio, che possa innescare il processo proteolitico di stagionatura naturale con cui assumeranno le caratteristiche organolettiche tipiche (sapore, profumo, colore e consistenza) del prosciutto stagionato.
Fino a mezzo secolo fa si scaldava l’acqua in un “caliero” di rame e, muniti di spazzoloni, si lavavano accuratamente a mano i prosciutti. Fino all’inizio del secolo scorso questi venivano appesi ai tralci delle viti; solo successivamente, e fino ai primi anni settanta del Novecento, venivano esposti al sole, coperti di pepe con funzione protettiva per gli insetti, ad asciugare su enormi rastrelliere in legno appoggiate alle case. E se pioveva, tutti dentro, per poi ritornare al più presto al sole. Con il caldo del sole diretto, i prosciutti si gonfiavano e “scaricavano” le vene della cotenna. Dopo gli anni settanta, il lavaggio dei prosciutti fu meccanizzato. Una doccia di mezzo minuto con acqua a 40 C° ammorbidisce la superficie del prosciutto e una spazzola rotante elimina i residui salini emersi nel periodo freddo. Contestualmente, l’asciugamento – per sopravvenute esigenze igieniche – fu portato all’interno del prosciuttificio in apposite celle con temperature a scendere fra i 20 e i 15 C° per un periodo non inferiore ai quaranta giorni. Durante questa fase è opportuno controllare che non si formino delle crepe o cavità fra le fibre muscolari per effetto del maggior restringimento dei tessuti connettivi. In tal caso si può intervenire con dello stucco composto da grasso e farina di riso che va a sigillare queste aperture. Questa fase chiude il periodo “asettico” della lavorazione e prelude all’inizio della stagionatura, non prima di sottoporre i prosciutti ad un’operazione importantissima di cui parleremo alla prossima puntata.